Il Governo italiano nel rispondere all’interrogazione del senatore Malan al Ministro dell’Interno, del 10 settembre 2015, sul numero minimo di fedeli per ottenere l’approvazione di ministri di culto, ribadisce che l’approvazione governativa dei ministri di culto non è necessaria per l’esercizio dell’attività pastorale, ma ha il solo scopo di consentire che alcuni atti dei ministri medesimi (tipicamente i matrimoni) producano effetti anche per l’ordinamento giuridico generale dello Stato. Per cui è ampiamente giustificato il requisito richiesto che la confessione abbia una consistenza numerica apprezzabile, tale da giustificare concretamente la necessità o l’utilità per l’ordinamento di conferire al ministro di culto il potere pubblicistico di porre in essere atti aventi effetti civili. È curioso che in sede politica venga confermata una prassi avallata da un semplice parere in difformità da altri pareri espressi in passato e comunque giudicato del tutto infondato sul piano giuridico da autorevoli studiosi della materia.

Si è così richiamata ancora una volta l’attenzione su una questione nodale della legislazione del 1929-30, emanata per la disciplina dei culti religiosi acattolici e tutt’ora in vigore per le Confessioni i cui rapporti con lo Stato non sono disciplinati per legge, sulla base di intese; una legislazione che segue una logica non più accettabile in un contesto pluralistico e multiculturale come il nostro e coerente, invece, con la logica del “numero chiuso” dei “culti ammessi”.

L’istituto dell’approvazione della nomina dei ministri di culto è disciplinato dall’art. 3 della l. 24 giugno 1929, n. 1159 “Le nomine dei ministri dei culti diversi dalla religione dello Stato debbono essere notificate al Ministero dell’interno per l’approvazione. In mancanza di approvazione governativa nessun effetto civile può essere riconosciuto agli atti del proprio ministero compiuti da tali ministri di culto”.

Per quanto riguarda l’attuazione concreta della norma bisogna fare riferimento al Regio Decreto 289/1930. Le norme che disciplinano l’iter sono quelle contenute negli artt. 20 -22.  In particolare, viene stabilito che “qualora il culto non sia, o per erezione dei suoi istituti in ente morale od altrimenti, già noto al governo, debbono essere fornite anche notizie circa la  denominazione di esso, i suoi scopi, i suoi riti, i mezzi finanziari dei quali dispone, i nomi degli amministratori, l’autorità ecclesiastica superiore da cui dipende” (art. 20, terzo comma). Questi elementi indicati nella norma e non riferibili alla persona del ministro di culto, non sono necessari lì dove, o per erezione dei suoi istituti in ente morale od altrimenti, il culto è già noto al governo. Inoltre, oltre alla necessità di allegare i documenti attestanti la nomina da parte della confessione, al requisito del possesso della cittadinanza italiana, nel caso in cui i “seguaci del culto” siano, in maggioranza, cittadini italiani (art. 21, terzo comma) ed alla conoscenza della lingua italiana, altri elementi non sembrano essere necessari, almeno stando al dettato delle norme di riferimento in materia.

Il Consiglio di Stato più volte, invece, è intervenuto in favore della presunta discrezionalità nella nomina dei ministri dell’Amministrazione ministeriale. Nel parere del Consiglio di Stato Numero 00561/2012 del 02/02/2012 lo stesso giudice ha nuovamente evidenziato l’ampiezza della discrezionalità attribuita all’Amministrazione nella valutazione della sussistenza di requisiti necessari all’adozione del provvedimento che, “sotto il profilo soggettivo, sono riconducibili all’affidabilità, alla serietà ed alla moralità della persona che deve rivestire la delicata carica pastorale, mentre, sotto il profilo oggettivo, sono riscontrabili nella sussistenza di una comunità di fedeli qualitativamente e quantitativamente consistente”. Si esclude così a priori l’ipotesi che  l’autorizzazione alla nomina possa essere considerato un atto dovuto a fronte di un vero e proprio diritto del ministro di culto contemplato dalla norma stessa; per cui l’autorizzazione viene sottoposta alla preventiva valutazione dell’amministrazione anche nei casi in cui la confessione abbia avuto un preventivo riconoscimento o perché eretto in ente morale o perché autorizzato dal ministro dell’interno ad  iscrivere i propri ministri al fondo clero ai sensi della legge n.903 del 22.12.1973. Inoltre l’amministrazione ha più volte chiarito, per converso, che la mancata approvazione non determina alcun impedimento per l’opera del ministro di culto, ben potendo lo stesso continuare ad esercitare liberamente l’attività pastorale in tutto il territorio nazionale in virtù dei poteri conferitigli dalla Chiesa di appartenenza.

Tale asserzione è in contrasto con quanto stabilito dalla normativa sui culti ammessi che prevede invece in maniera tassativa la preventiva autorizzazione per poter usufruire dei benefici e dei privilegi previsti dal citato r.d. 28 febbraio 1930, n.289, quali la possibilità di pubblicare e affiggere nell’interno ed alle porte esterne degli edifici destinati al proprio culto gli atti riguardanti il governo spirituale dei fedeli, senza particolare licenza dell’autorità di pubblica sicurezza e con esenzione da tasse; la possibilità di eseguire collette nell’interno ed all’ingresso degli edifici destinati al proprio culto, senza ingerenza delle autorità civili; la possibilità di essere autorizzati a frequentare i luoghi di cura e di ritiro per prestare assistenza religiosa ai ricoverati che la domandino; la possibilità di essere autorizzati a prestare l’assistenza religiosa agli internati negli istituiti di prevenzione e di pena; la possibilità di essere dispensati dalla chiamata alle armi; la possibilità di essere autorizzati all’assistenza religiosa dei militari acattolici. Inoltre Ai sensi dell’art. 609 cod. civ. i ministri di culto possono, agli effetti i civili, ricevere testamento. Facoltà e privilegi che la stesso Consiglio di Stato richiama nel predetto parere. Da notare che nel richiamare gli art. del r.d. 289/1930, il Consiglio di Stato riporta nell’elencazione anche gli art. 1 e 2 dichiarati incostituzionali dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 59/1958. Quasi a voler sottolineare il permanere comunque in capo all’amministrazione del poter di decidere sull’apertura o meno di nuovi locali di culto e sulla possibilità di ivi svolgere riunione pubbliche per il compimento di cerimonie religiose.

Il Consiglio di Stato quindi nel ribadire la necessità come sopra affermato della sussistenza di una comunità di fedeli qualitativamente e quantitativamente consistente (anche se riesce molto difficile comprendere cosi si intenda per comunità qualitativamente consistente), pone quale parametro oggettivo un nuovo valore riferito alla consistenza numerica della comunità.  “Tale valore può essere orientativamente indicato in 500 persone, corrispondente di massima con le più piccole parrocchie cattoliche con parroco residente ovvero intorno alle cinquemila persone ove la comunità di fedeli sia distribuita in tutto il territorio nazionale”.Più volte il giudice si è espresso su questo particolare aspetto della consistenza numerica. Lo ha fatto anche in un meno recente parere del 7 giugno 2006  n. sezione 1947/2006 quando fu chiamato ad esprimersi, in riferimento ai requisiti oggetti necessari per la concessione dell’autorizzazione ministeriale, sull’interrogativo se tra questi debba considerarsi necessaria anche la presenza di un locale di culto dove i fedeli possano riunirsi. In quell’occasione la prima Sezione  ritenne che per l’approvazione della nomina del ministro di culto, non sia necessaria l’esistenza, nel comune di residenza del richiedente, di un autonomo luogo di culto a ciò espressamente adibito, ma che sia sufficiente che esista un luogo, anche privato, dove l’aggregazione i fedeli possa liberamente realizzarsi; a tal fine diventa difficile conciliare i due differenti aspetti, o meglio requisiti oggettivi previsti dallo stesso Consiglio di Stato, in quanto non si comprende bene come un’aggregazione di fedeli, che si richiede non inferiore a 500 persone, possa liberamente realizzarsi riunendosi in una casa privata.

Ma ciò che desta maggiore preoccupazione è che il Consiglio ai fini della quantificazione del valore dei moduli orientativamente indicati ha fatto riferimento all’ordinamento del culto più diffuso in Italia, per poi eventualmente passare ad esaminare modelli di culti o istituzioni religiose di minore rilevanza e diffusione. Quindi come punto di riferimento ha preso la più piccola articolazione territoriale della Chiesa cattolica, cioè la parrocchia. Questa associazione va a priori rifiutata dal momento in cui la legge è nata proprio per disciplinare realtà diverse da quella cattolica, con una consistenza numerica notoriamente inferiore a quella considerata come religione di maggioranza. Bisogna anche considerare che i criteri della valutazione numerica della comunità, quali presupposti che l’Amministrazione prende in considerazione ai fini dell’approvazione o meno della nomina a ministro di culto, non possono essere meramente oggettivi senza calarsi nelle singole realtà. L’Amministrazione Statale nell’esercizio della propria discrezionalità dovrebbe tener conto che stiamo parlando di confessioni che sono minoritarie rispetto ad altre chiesa di maggioranza. Ad esempio, gli Evangelici rappresentano 1% della popolazione nazionale. Pertanto i criteri per la valutazione numerica della comunità non possono non tenere conto del rapporto di proporzionalità delle componenti numeriche delle confessioni religiose sul territorio.

Il Consiglio di Stato sempre nel citato parere, a sostegno della predetta discrezionalità dell’Amministrazione richiama quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 589/1958 partendo dalla distinzione fra la libertà di esercizio dei culti acattolici, come pura manifestazione di fede religiosa, e l’organizzazione delle varie confessioni nei loro rapporti con lo Stato che si trova nettamente fissato il suo positivo fondamento giuridico negli artt. 8 e 19 della Costituzione. Secondo la Corte il legislatore costituente non ha mancato di considerare le confessioni religiose anche dal punto di vista, che é del tutto diverso, della loro organizzazione secondo propri statuti e della disciplina dei loro rapporti giuridici con lo Stato. Di conseguenza se la facoltà di regolare i rapporti con lo Stato viene effettivamente esercitata, come ha ritenuto la Corte,  è evidente che, dalle norme che ne risultano, così come la confessione religiosa riceve dei vantaggi, del pari deve subire i limiti che, nell’interesse dello Stato ad essi logicamente si riconnettono. E questo deve riferirsi anche agli atti dei ministri di culti ammessi ai quali siano riconosciuti effetti giuridici (come l’efficacia del matrimonio), per cui le nomine dei ministri di culto, a questi effetti e solo a questi effetti, ricadano sotto la ricognizione e il controllo dello Stato, come i provvedimenti di approvazione.

Nulla volendo togliere all’autorevolezza della pronuncia del Supremo Giudice, sembra che in questo discorso rivolto alla realtà delle confessioni in quanto organizzazioni, si perde di vista il nodo centrale della libertà religiosa quale diritto inviolabile del singolo che trova il suo fondamento negli artt. 2 e 3 della nostra Carta Costituzionale. Infatti, non può non prendersi in considerazione la legittima aspirazione  del singolo fedele di essere sposato dal Ministro di culto della propria chiesa locale. Si consideri che i credenti beneficiano di tutte gli atti pastorali che segnano il calendario  della vita comunitaria, esperienze che coinvolgono il fedele  anche sul piano emotivo oltre che sul piano religioso (Battesimi, funerali, visite pastorali, ecc);  con questa misura, si trovano di fatto impediti nel ricevere la celebrazione matrimoniale da parte  del  proprio pastore con il quale il credente ha maturato un rapporto personale fiduciario. Sul piano del diritto personale verrebbe a crearsi un’evidente disparità di trattamento con un evidente svantaggio per il credente a cui viene leso l’esercizio di un diritto rispetto a credenti appartenenti a confessioni che hanno stipulato concordati o Intese son lo Stato. Per cui se pure un solo individuo che professasse una  fede diversa, deve essergli garantita la pari dignità concessa alla maggioranza.

Non dimenticando comunque che il parere lascia sempre libera l’amministrazione dal discostarsi dallo stesso, lì dove lo ritenga opportuno. L’Amministrazione potrà verificare tale valore e prendere in esame modelli riferiti ad altri culti anche non regolati da intese con lo Stato Italiano e modificare ove opportuno il valore del “modulo base” di 500.

Sta di fatto che la legge del 1929 è ormai superata e incostituzionale, in quanto simbolo di un impianto dichiaratamente fascista e basato sul presupposto giuridico della religione di Stato; urge una concreta applicazione delle norme costituzionali in materia anche al fine di evitare differenze tra confessione a cui è stata data la possibilità di regolare i loro rapporti con lo stato ed altre. Infatti, anche la Corte Costituzionale nella predetta sentenza ha affermato l’urgenza dell’intervento del legislatore  in materia. Nell’attesa auspichiamo, quantomeno, che si possa arrivare ad una ragionevole applicazione dell’art. 3 della Legge del 1159/1929 che tenga maggiormente in considerazione quanto suggerito anche dall’art 20 del r.d. 289/1930 e cioè, che si possa arrivare ad una maggiore collaborazione tra l’Amministrazione e le rappresentanze delle confessioni interessate dalla normativa, che possa tendere anche alla creazione di un organo di consultazione il più rappresentativo possibile, deputato ad interloquire con l’amministrazione in uno spirito di massima collaborazione.

Leggi la risposta all’interrogazione del Sen. Lucio Malan

a cura della segreteria FCP