Il XVII Meeting degli Esperti, evento annuale organizzato dall’International Religious Liberty Association (Irla), ha riunito circa 20 studiosi presso la Pepperdine University School of Law di Malibu, in California, per considerare il ruolo della religione nelle attuali lotte globali e per mettere a fuoco i modi in cui la fede può, invece, essere uno strumento potente per il mantenimento della pace e la risoluzione dei conflitti. Ogni relazione presentata durante l’evento di quattro giorni verteva in qualche modo su due domande fondamentali: “Come possiamo vivere con le nostre profonde differenze?” e “Come può il meglio delle religioni superare la spaventosa situazione di guerre di religione, pulizia etnica e religiosa, e genocidi alimentati dalla discriminazione religiosa?”.  Il convegno ha riunito un gruppo eterogeneo di studiosi che hanno rappresentato università e organizzazioni di sette paesi. Tra i relatori, ricordiamo il dott. David Little, professore emerito della Harvard Divinity School; il rev. Canon Brian Cox, vicepresidente senior del Centro Internazionale per la Religione e la Diplomazia; il prof. Cole Durham, presidente del Consorzio Internazionale per gli Studi di Diritto e Religione, con sede a Milano; il prof. T. Jeremy Gunn, docente di Relazioni Internazionali presso l’Università Al Akhawayn di Ifrane, in Marocco; e il dott. Amal Idrissi, professore di legge presso l’Università di Moulay Ismael a Meknes, in Marocco. L’ ex ambasciatore straordinario degli Stati Uniti per la libertà religiosa e attuale presidente dell’Irla il dott. Robert A. Seiple ha tenuto il primo dei dieci interventi principali e si è concentrato sulla sua esperienza diretta riguardante il terribile genocidio del 1994, in Rwanda (Tratto da NAV).

Il caso del Rwanda è particolarmente significativo per il ruolo svolto dalle chiese pentecostali nel post genocidio. Il pentecostalesimo approda in Rwanda nel 1940 ad opera della Swedish Free Churches’ Mission; provenivano da una ventennale esperienza missionaria in Congo (ex Zaire) e negli anni Sessanta i pentecostali sono già presenti in tutte le regioni. Con l’appellativo di balokole (quelli che credono e fanno esperienza della contemporaneità dei doni dello Spirito) vengono indicati tutti i pentecostali o ‘carismatici’ indipendentemente dalle differenze interne; le stime più accreditate li danno ad oltre 1.200.000 persone, su una popolazione complessiva di circa 7.500.000 di abitanti. Si stima che prima del genocidio del 1994 i pentecostali non andassero oltre il 2% della popolazione. L’aumento vertiginoso degli ultimi venti anni è dovuto all’atteggiamento che i pentecostali hanno assunto all’indomani del genocidio e il ruolo che hanno svolto nel post-genocidio. Infatti, nelle efferatezze dello scontro tra hutu e tutsi furono coinvolti anche alcuni pentecostali; ma all’indomani della fine dei massacri questo coinvolgimento, sia pure limitato, provocò un profondo ripensamento che prese le mosse dai pastori che erano stati costretti a fuggire e poi ritornarono. Tale situazione ha messo in moto un processo di revisione di usi, costumi e tradizioni che ha portato a spiegare il coinvolgimento nelle stragi come un attaccamento a modalità di pensiero tradizionali non purificate dallo Spirito e perciò di origine diabolica; così la missione dei pastori è diventata la restaurazione dei cuori di coloro che hanno attraversato l’esperienza del genocidio: tanto i carnefici quanto le vittime devono orientarsi verso una nuova vita per rinascere. Solo così possono diventare balokole, cioè salvati dallo Spirito, e sperimentarne i doni. Tutto ciò non si esaurisce in un soggettivismo astratto caratterizzato da una spiritualità semplicemente metastorica; anzi ha delle significative ricadute politiche e sociali permettendo, ad una parte significativa della popolazione, una rielaborazione profonda di una tragedia immane quale il genocidio del 1994 rappresentò per il Rwanda (a cura della segreteria della FCP).